Norme e leggi per l'impiantistica sportiva

persone che fanno il tifo allo stadio
03.12.2012

Legge sugli stadi: il punto della situazione

Categorie: news sport, stadi e arene polifunzionali, norme e leggi,

di Alice Spiga

Della futura “Legge sugli stadi”, al momento ancora un Decreto, si sono occupati praticamente tutti. Giornalisti, blogger appassionati di calcio, opinionisti, politici, architetti, progettisti, docenti, associazioni ambientaliste; nei mesi trascorsi dall’approvazione del decreto alla Camera fino ad oggi, la Legge, che legge ancora non è, ha letteralmente infestato il web e le pagine di quotidiani e riviste.

Ed è stato estremamente interessante ripercorrere la molteplicità dei pareri espressi sul DDL Stadi e rendersi conto di come ogni singolo concetto del decreto sia stato interpretato in maniera talvolta anche diametralmente opposta, a seconda degli occhi che lo stavano osservando.

Hanno tutti ragione

Il problema di fondo è che sembrano avere tutti ragione. Hanno ragione coloro che lo sostengono, perché in Italia gli stadi devono uniformarsi agli standard europei, diventando quei luoghi di aggregazione aperti a tutti che il calcio merita.

Come aveva espresso molto giustamente il consulente Ian Nuttall, co-fondatore della società inglese Xperiology, in un’intervista concessa alla nostra redazione: “Una cosa è certa: se si abbandonano le strutture esistenti al loro destino, il livello qualitativo continuerà a scendere, e con esso il valore dell’esperienza sportiva. Sono quindi assolutamente convinto che nel medio-lungo termine sia necessario investire di più nella progettazione di nuovi stadi.

Da straniero, trovo singolare che un grande calcio come il vostro debba essere giocato in impianti così fatiscenti. I fan, gli sponsor, i giocatori e le comunità locali meritano, e sempre più domanderanno, qualcosa di meglio”.

Questo accade perché in Italia, purtroppo, gli stadi sono ancora visti come luoghi di violenza e di pericolo, luoghi dove è meglio non aggirarsi da soli la notte, luoghi dove è meglio non portare i propri bambini. Eppure all’estero non è così.

Come afferma nel suo appassionato editoriale l’architetto Pino Zoppini (rivista Impianti 2/12): “La sicurezza non è certo una caratteristica che contraddistingue i nostri stadi. In televisione vediamo partite in Inghilterra, Germania e Spagna con un pubblico ordinato, seduto a livello del campo senza recinzioni e controllato solo da steward, in Italia barriere fisse per separare le tifoserie sotto l’occhio della polizia troppe volte incapace di sedare gli ultrà delle due parti. Di certo mancano politiche coraggiose di prevenzione ed educazione, e non è certo una legge sugli stadi che possa risolvere questa realtà”.

E ancora: “I nostri vecchi stadi sono poco ospitali e poco sicuri, per questo troppo spesso sono vuoti. Essi invece devono essere pensati come poli della città utilizzati non solo per qualche ora la domenica, ma anche per incontrarsi durante tutta la settimana sempre che esistano quelle caratteristiche e attrattive polifunzionali che ormai sono normalità ovunque tranne che in Italia”.

Gli fa eco Pierluigi Paolillo, professore ordinario di Architettura ed Urbanistica presso il Politecnico di Milano, intervistato su Il Fatto Quotidiano: “La commistione funzionale rende viva la città e questo vale anche per gli stadi: il passato ci insegna che non ha senso continuare a costruire cattedrali nel deserto. Certo, ci vorranno delle amministrazioni non supine per avere risultati positivi ed evitare storture”.

In nome della multifunzionalità

La volontà espressa dal DDL Stadi è infatti quella di realizzare “complessi multifunzionali”, ovvero stadi che non siano semplicemente luoghi dove ci si reca la domenica a vedere la partita, ma spazi di aggregazione aperti a tutti, dove trovare, oltre all’impianto sportivo, attività residenziali, direzionali, turistico-ricettive e commerciali. Sulla carta è un’ottima idea, un modo per portare (finalmente) i nostri stadi fuori dall’ingessatura che si portano dietro da troppi anni. Il problema sorge proprio in quelle “storture” che il professor Paolillo afferma sarebbe meglio evitare.

Per alcuni, infatti, il decreto incentiva troppo la costruzione ex-novo a discapito della riqualificazione degli impianti esistenti, semplificando le procedure e gli iter burocratici e “velocizzando al massimo le necessarie varianti urbanistiche e commerciali” (cit. INU, Istituto Nazionale Urbanistica). Il Decreto dichiara inoltre che, “al fine di garantire l’equilibrio economico-finanziario della gestione dell’impianto sportivo o del complesso multifunzionale e la loro redditività, il Comune può prevedere la possibilità di un ampliamento edificatorio delle cubature che già insistono sull’area interessata”, stabilendo un vincolo sull’area, affinché rimanga ad uso sportivo, della durata di 10 anni (non sarà poco?).

Senza contare che: “Nella prima versione della Legge si prevedeva che a usufruire di queste procedure potessero essere gli impianti di almeno 10.000 posti a sedere allo scoperto e 7.500 posti a sedere al coperto. Nel testo approvato a luglio alla Camera si è abbassato ancora l’obiettivo: 7.500 allo scoperto e 4.000 coperti. Il che vuol dire rendere possibile in almeno 500 Comuni italiani operazioni immobiliari pienamente giustificate dal provvedimento. E non vi sarebbero neanche più limiti di tempo per presentare i progetti, perché la Legge non è più legata a una manifestazione sportiva”.

Queste poche righe, tratte dal dossier diramato da Legambiente sintetizzano molto bene la perplessità, quando non l’indignazione, delle associazioni ambientaliste (Legambiente, WWF, FAI) che vedono in questa legge un invito alla speculazione edilizia. E come dare loro torto? Dopo i disastri finanziari e le polemiche sorte, tanto per fare un esempio, per i mondiali di nuoto a Roma (con lo stadio progettato da Calatrava che è tutt’ora un cantiere a cielo aperto), come non porsi il problema delle conseguenze che questi assunti potrebbero generare?

Il pericolo maggiormente temuto dagli ambientalisti, come da alcuni politici (in prima fila il senatore Roberto Della Seta, capogruppo Pd) e dagli istituti di urbanistica, è l’incentivazione al consumo di suolo. “Tali interventi – si legge in uno dei comunicati diramati dall'INU - così come ipotizzati nel provvedimento, possono incrementare il dannoso consumo di suolo, producendo un sicuro danno all’ambiente e all’ecosistema”.

In contraddizione?

A questo proposito, è interessante mettere in evidenza come, parallelamente al DDL Stadi sia stato approvato dal Consiglio dei Ministri, in data 14 settembre 2012, un decreto legge contro il consumo di suolo. “Grazie alle misure contenute nel disegno di legge contro il consumo del suolo – afferma Mario Catania, Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, nel corso della conferenza stampa tenutasi a Palazzo Chigi - facciamo un decisivo passo in avanti per raggiungere l’obiettivo di limitare la cementificazione sui terreni agricoli, in modo da porre fine a un trend pericoloso per il Paese”.

Un dubbio sorge spontaneo: come si inserisce questo decreto con quello dedicato agli Stadi che annuncia la possibilità di ampliare la cubatura degli interventi, qualora fosse necessario per garantire l’equilibrio finanziario dell’intervento? E come si inserisce il beneplacito annunciato dalla Giunta Alemanno di realizzare un complesso sportivo polifunzionale a Roma in aree agricole non edificabili (come si legge nel già citato dossier di Legambiente)?

(Ri)partire dalla cultura

Il problema fondamentale sembra essere: abbiamo in Italia la consapevolezza e la cultura per ristrutturare o creare “complessi polifunzionali” senza lasciarci prendere la mano dall’abusivismo, dalla speculazione e dalla cementificazione?

Come si chiede nel citato editoriale l’architetto Zoppini: “Questa legge sarà capace di cambiare effettivamente uno scenario che in Italia per gli stadi e gli altri impianti sportivi è così in profonda crisi?”. Forse no, forse non basterà. E allo stesso tempo, come si legge nell’articolo dedicato alla situazione impiantistica degli stadi in Italia a cura di Xperiology, “Questa legge può rivelarsi un’occasione per il settore privato di riprendere in mano alcuni dei progetti abbandonati, sviluppando nuovi stadi con la collaborazione delle autorità locali e regionali. Descritta come un modello finanziario in public private partnership, la nuova legge potrebbe essere il pulsante start di una ripresa concreta nella costruzione di stadi italiani”.

Una nota di positività che si sposa con la risposta che si dà l’architetto stesso: “La risposta è positiva solo se verrà colmato il ritardo culturale dei nostri politici, ma anche dei presidenti dei club che non hanno ancora capito come da un punto di vista imprenditoriale uno stadio di proprietà è alla fine un affare. Ricordiamo che dopo gli interventi molto discussi per gli stadi di Italia 90 poco o nulla è stato fatto ad eccezione dell’importante realizzazione dello stadio della Juventus”.

Se ce l’ha fatta la Juve!

Già, lo stadio della Juventus. Sono in tanti a pensare che, se ce l’ha fatta la Juve, a costruirsi il nuovo stadio senza la legge, allora forse serve solo la “buona volontà”. Come scrive in un comunicato il relatore del provvedimento, Claudio Barbaro (FLI, Futuro e Libertà): “La legge è stata spesso presentata come una panacea, ma così non è, perché dove c’è la volontà e la disponibilità finanziaria le cose si riescono a fare lo stesso, come dimostra il caso Juventus. È vero, però, che la Juve a costruire lo stadio ci ha messo 10 anni. Con la nuova legge si può snellire tutto. Anche perché, considerato che la legge fa leva sullo strumento urbanistico, il provvedimento provocherebbe un movimento economico potenziale calcolato sul miliardo di euro, e oggi non vedo come il mondo dello sport possa produrre risultati di questo tipo in altro modo”.

A sostegno dei dati riportati da Barbaro, la ricerca recentemente svolta da StageUp, Sport & Leisure Business, sugli stadi del futuro: “La costruzione o ristrutturazione degli stadi italiani potrebbe rappresentare un volano per lo sviluppo economico del Paese, con investimenti stimati in 4 miliardi di euro e la generazione di 85.000 posti di lavoro nei prossimi 10 anni. Tutto questo, però, a una condizione: che la Legge sugli Stadi sia raccordata con la nuova normativa sul project financing, che ha preso forma con gli ultimi Decreti Legge realizzati dal Governo a partire dal dicembre scorso”.

Una questione per privati

Investimenti privati, dunque. Ma da parte di chi? “Presto detto - commenta l’avvocato Guido Martinelli intervistato dalla nostra redazione in materia – si tratta di un do ut des. Gli enti pubblici non sono in grado di finanziare il rifacimento e l’ammodernamento degli stadi e si trovano privati disponibili, dando loro in cambio cubature di residenziale o di commerciale da edificare e mettere sul libero mercato. Ma vede, su questo tema la mia riflessione è altra. Cosa facciamo degli attuali stadi? Chi li gestirà e li manutenzionerà? L’opinione pubblica dovrebbe essere informata di questi aspetti, perché anche distruggerli ha un costo”.

 
 
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